Tra i figli di chi è fuggito dalla guerra in Kosovo ci sono anche giocatori della nazionale svizzera di calcio. Le loro radici sono riemerse con un’esultanza ai Mondiali 2018 contro la Serbia
Chiudi gli occhi. Incrocia le mani, incastra i pollici a fare da perno. Apri i palmi verso il petto. E poi immagina di stendere le ali dell’aquila a due teste del Kosovo sul rettangolo verde di un campo di calcio, appena dopo il gol decisivo in una partita dei Mondiali di calcio. Ora riapri gli occhi. Perché questo un gioco non lo è affatto. Stai facendo uno dei gesti d’esultanza più politicizzati d’Europa.
È il 22 giugno 2018 e l’aquila dei kosovari sta volando sul cielo di Kaliningrad, in Russia. Xherdan Shaqiri ha appena segnato un gol al 90° minuto contro la squadra che probabilmente odia più al mondo quel gesto: la Serbia. Ma la partita è Svizzera-Serbia. Cosa c’entrano l’aquila bicefala, il Kosovo, il calcio e la Serbia con la Svizzera, lo Stato neutrale per eccellenza?
Rifugiati nel cuore delle Alpi
Bisogna riavvolgere il nastro al marzo del 1998. Il regime serbo di Slobodan Milošević decise di reprimere la popolazione di etnia albanese che viveva nella regione autonoma del Kosovo. Ma nel Kosovo l’etnia albanese non era una minoranza: ancora oggi rappresenta il 93 per cento della popolazione. Molti kosovari-albanesi scelsero la strada della lotta armata indipendentista, seguendo l’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK). Tra il 1998 e il 1999 morirono in 11 mila, la maggior parte civili.
Altri scelsero la strada dell’esilio, della protezione di altre nazioni. Divennero rifugiati. Solo nel 1999 in 30 mila scelsero la via delle montagne, la Svizzera. Lì da tempo si era già stabilita una grossa comunità di lavoratori emigrati. Oggi vivono in Svizzera 112 mila kosovari-albanesi. Praticamente, 1 kosovaro su 10 ha casa nel cuore delle Alpi. Sono i figli di chi fuggiva dalla guerra, come alcuni dei calciatori che in quel 22 giugno 2018 vestivano la maglia della nazionale svizzera.
Maglia svizzera, cuore kosovaro
C’è Xherdan Shaqiri, appunto. Ma anche Granit Xhaka e Valon Behrami. Il baricentro offensivo della Svizzera che ai Mondiali del 2018 soffiò l’accesso agli ottavi di finale proprio alla Serbia.
La famiglia di Shaqiri si trasferì in Svizzera nel 1995, avvertendo i segnali della guerra. Padre muratore, madre donna delle pulizie, l’esterno ex-Inter ha più volte ricordato che una parte dei loro soldi andavano ai parenti rimasti nei Balcani. Non erano molti – gli stipendi e i risparmi – ma questo ricordo restituisce la dimensione della guerra vissuta indirettamente anche in casa Shaqiri.
Per Xhaka invece la ferita non smetterà mai di sanguinare. Il padre, Ragip, trascorse 4 anni in prigione per aver partecipato nel 1986 a una manifestazione in favore dell’indipendenza del Kosovo dalla Jugoslavia. Granit nacque in Svizzera nel 1992. La guerra non l’ha vissuta, il Kosovo nemmeno. Ma l’aria politicizzata che si respirava in casa ha attecchito a fondo.
Behrami la guerra invece se la ricorda eccome. “Un giorno mio papà è stato picchiato in mezzo alla strada e sarebbe anche potuto morire, così abbiamo deciso di andarcene in Svizzera”, ha raccontato in un’intervista. Se la sua famiglia è potuta rimanere in Svizzera è stato grazie alle sue doti calcistiche: la società per cui giocava li aiutò a raccogliere il numero di firme necessario per non essere rimpatriati.
Sono tutti figli del Kosovo, in un modo o nell’altro. Ma non hanno mai messo in discussione l’attaccamento per il Paese che li ha accolti. O l’attaccamento alla maglia della nazionale, portata insieme fino agli ottavi di finale ai Mondiali di Russia del 2018. Attaccamento che però ha fatto anche da megafono per le rivendicazioni identitarie di un popolo intero.
Aquile bicefale sul cielo di Kaliningrad
Fine primo tempo. 1 a 0 per la Serbia. Per quattro giocatori (al novero dobbiamo aggiungere anche Blerim Džemaili, macedone di etnia albanese) il risultato brucia il doppio.
Si esce dagli spogliatoi. Passano solo 7 minuti. Palla che esce dall’area di rigore serba dopo un rimpallo. Arriva in corsa Xhaka. Con una botta di prima da fuori area segna il gol del pareggio. Vola la prima aquila.
Passa tutto il secondo tempo. La partita sembra scorrere via verso un pareggio che non accontenta nessuno. E poi il lampo.
Palla recuperata in difesa. Due tocchi. Filtrante per Shaqiri che corre tutta la metà campo avversaria e infila il portiere serbo Stojković. È 2 a 1 per la Svizzera. Al 90° minuto. Vola la seconda aquila.
Cosa significa tutto questo
Il gesto di Shaqiri e Xhaka è uno dei più diffusi tra le comunità di etnia albanese sparse in Europa. Simboleggia l’aquila a due teste della bandiera albanese: nera, su sfondo rosso. È una manifestazione di orgoglio nazionale. Kosovaro, in questo caso. Spesso non è assimilato a contesti conflittuali, tanto che anche Stephan Lichtsteiner – capitano svizzero che di kosovaro non ha proprio nulla – ha festeggiato insieme a Shaqiri con la ‘sua’ aquila.
Ma in questo caso – contro la nazionale di calcio sera, contro chi ancora non vuole riconoscere il Kosovo come Stato indipendente – c’è chi ci ha visto un richiamo alla “Grande Albania”, che comprende tutti i territori balcanici a maggioranza albanese (in Montenegro, Macedonia, Kosovo e Grecia). Nei Balcani non è mai stato facile scindere l’orgoglio identitario dalle rivendicazioni politiche e nazionaliste.
Qualunque intenzione ci fosse dietro alle due aquile di Kaliningrad, la Fifa decise di multare i due svizzeri-kosovari per il principio che calcio e politica non debbano mischiarsi. Come se i mondiali tra nazioni non fossero essi stessi un intreccio di politica e sport.
Oggi nella rosa ufficiale della nazionale svizzera (lista degli Europei 2020, prima del rinvio per la pandemia COVID-19) è rimasto solo Xhaka. L’ultimo kosovaro reduce dell’impresa contro la Serbia. L’ultima aquila bicefala.