I ragazzi e le ragazze dell’ONG veronese One Bridge to Idomeni ci spiegano cosa sta succedendo sulla rotta balcanica in Bosnia e l’importanza del confronto tra i giovani sul tema delle migrazioni
C’è un ponte umano che parte dalla Bosnia ed Erzegovina e ha come altra sponda Verona. In questa città sta diventando sempre più dirompente l’impegno di alcuni ragazzi e ragazze che vogliono dare il proprio contributo per cambiare la narrazione e la situazione della rotta migratoria che passa dai Balcani Occidentali. L’associazione che hanno fondato nella primavera del 2016 si chiama One Bridge to Idomeni.
Idomeni è un piccolo villaggio sul confine tra Grecia e Macedonia del Nord, dove a cavallo tra il 2015 e il 2016 più di diecimila persone si ritrovarono bloccate dalle misure europee di chiusura dei confini. Da allora One Bridge to Idomeni lavora sui confini europei della rotta balcanica, in supporto alle persone migranti in Grecia e in Bosnia ed Erzegovina. Ma svolge anche un’altra attività imprescindibile: portare “a casa”, a Verona, le testimonianze delle persone incontrate, promuovendo incontri, formazioni e attività nelle scuole.
Insieme alla band ULULA & LaForesta, One Bridge to Idomeni ha dato vita al progetto di supporto alla realtà bosniaca U Pokretu. È anche per questo che, sempre a Verona, BarBalcani ha incontrato Serena Zuanazzi e Matteo Bertelli, due dei membri del direttivo dell’onlus che hanno guidato il viaggio a Bihać, per parlare di cosa sta succedendo in Bosnia (dentro e fuori il campo profughi di Lipa appena inaugurato), di come il progetto di U Pokretu può cambiare la realtà sul campo e di quanto è importante l’apertura al dialogo, soprattutto tra i giovani.
“Come un ristorante stellato in una carcere di massima sicurezza”
A un anno dall’incendio del campo profughi di Lipa, ne è stato inaugurato uno nuovo. Qual è la situazione oggi?
“Rispetto all’anno scorso, quando abbiamo visitato il campo provvisorio a febbraio, la situazione è migliorata. Dopo l’incendio di fine dicembre 2020, erano state allestite tende militari con pompe di calore che non erano sufficienti per riscaldare tutti gli ambienti, bagni chimici e generatori di energia forniti dalla Croce Rossa. Adesso nel vecchio campo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno costruito container per ospitare fino a 1500 persone. Ci sono servizi, riscaldamento ed elettricità. Lo si vede anche da lontano: sembra uno stadio, da quanto è illuminato.
Ma, nonostante si tratti dell’unico sistema di accoglienza al momento sostenibile per l’inverno gelido della Bosnia, il campo di Lipa rimane comunque un fallimento. Attualmente ci sono solo circa 350 persone, perché a Lipa nessuno ci vuole stare davvero. L’Europa ha finanziato un campo con enormi problematiche. Per fare un paragone, è come aprire un ristorante stellato in un carcere di massima sicurezza. Non è la giusta soluzione in questo contesto. Bisogna pensare a diverse forme di accoglienza”.
Quali sono le problematiche maggiori del campo?
“Prima di tutto si tratta di un sistema di accoglienza nascosto e lontano da tutto: solo per arrivare a Bihać servono 8 ore a piedi. Poi non bisogna dimenticare che gli sgomberi delle forze dell’ordine vengono sempre fatti in primavera/estate – con l’arrivo dei turisti dagli Emirati Arabi e dalla Turchia – e spesso capita che non vengano nemmeno presi accordi con le autorità del campo.
Ma l’aspetto più preoccupante è che sembra che non sia stata fatta un’analisi del contesto della rotta balcanica. Sono stati spesi tanti soldi per un campo lontano da tutto e in una situazione estremamente variabile, come può esserlo una rotta migratoria. Per esempio, non si può escludere che da quest’anno la rotta non passi più dalla Bosnia, o da Bihać nello specifico, come succedeva prima del 2017. Le persone possono trovare nuovi modi per arrivare in Europa, se incontrano grossi ostacoli. È una visione non lungimirante, che non assicura un’accoglienza dignitosa”.
Una terra per giovani
E a Bihać che succede invece?
“Anche quando siamo tornati a Bihać con ULULA & LaForesta nel maggio dello scorso anno, uno dei luoghi più vissuti dalle persone migranti era la Dom Penzionera. Una struttura dell’ex-Jugoslavia incompiuta e oggi fatiscente, che nella visione socialista doveva essere una casa di riposo in riva al fiume e vicina al centro della città. La sua costruzione è stata interrotta dallo scoppio della guerra in Bosnia nel 1992.
La struttura è stata occupata a più riprese tra il 2017 e il 2018, quando la rotta balcanica ha iniziato a passare dal cantone di Una Sana, nel nord-ovest della Bosnia, essendo diventato impossibile transitare dalla Serbia all’Ungheria. Ma la situazione per queste persone è sempre precaria e rischia di provocare tensioni con la popolazione locale. Sia per gli sgomberi delle forze dell’ordine, sia per il raffreddamento dei rapporti dopo anni di convivenza”.
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Come si inserisce in questo contesto il progetto di U Pokretu che sostenete?
“Il progetto è rivolto principalmente ai giovani, bosniaci e migranti. Prima di tutto offre dei servizi in una città da cui i giovani, non appena possono, sono spinti ad andarsene a causa della mancanza di opportunità. E poi fa da punto di contatto e di dialogo tra fasce di età molto simili – tra i 15 e i 30 anni – che avvertono il bisogno di trattare di temi come la migrazione e la creazione di nuove possibilità.
Non essendo cittadini UE, i bosniaci possono capire le difficoltà legate agli spostamenti verso l’Europa Occidentale per cercare opportunità di studio, di lavoro o di una vita migliore. Insomma, emigrando. Allo stesso tempo, quando si rapportano alle persone migranti che passano dalla Bosnia, sono a contatto ogni giorno con una situazione di cui non conoscono il contesto e non comprendono le cause. E spesso non la accettano. Ecco perché è fondamentale mettere in contatto questi ragazzi, stimolando il ragionamento a partire dal parallelismo di questi due sensi della migrazione. Mostra che tutti possono avere un motivo per spostarsi, più o meno simile al nostro, e che comunque alla base ci sono esseri umani e le loro storie”.
Non si scappa solo dalle guerre
A proposito di storie, l’altra direttrice del vostro impegno riguarda le testimonianze di ritorno dai Balcani.
“Per noi la testimonianza è fondamentale, perché ci permette di raccontare senza filtri ‘a casa’ che cosa abbiamo visto, con chi abbiamo parlato e quale situazione si sta creando appena aldilà dei confini dell’Europa. Ma ci permette anche di attivare un ragionamento su quello che succede qui tra noi, su come ci rapportiamo con le persone migranti che incrociamo nelle nostre vite. Spesso entriamo in contatto con ambienti già sensibilizzati, ma abbiamo iniziato a fare incontri nelle scuole anche a Verona, dove può variare molto la ricettività.
Per esempio ci capita di frequente di incontrare ragazze e ragazzi figli di stranieri, di seconda o terza generazione. All’inizio pensavamo vivessero il tema della migrazione con disagio. Invece si dimostrano i più attivi nel coinvolgere i compagni, raccontando le proprie esperienze personali e dei propri genitori. Ci aiutano a ragionare sul perché delle cose. Per quale motivo una persona dovrebbe volersene andare dal proprio Paese? Quale storia ha alle spalle? Che aspirazioni ha per il futuro? Troppo spesso si parla di ‘flussi’, di ‘ondate’, come se la migrazione fosse una marea. Invece devono essere le mille esperienze e storie personali al centro di tutto”.
Qual è il messaggio più importante che cercate di veicolare?
“Che esistono tante motivazioni che possono spingere una persona a migrare. Non solo scappare dalle guerre. Si pensa sempre che solo questo sia legittimo. Ma ci si dimentica spesso che tanti ragazzi e ragazze possono essere in cerca di un futuro migliore, che magari hanno visto solo alla televisione. La stessa cosa, in fondo, che succede ai giovani bosniaci e anche italiani. Molti tra noi e i nostri amici sono andati a vivere all’estero, e non perché qui ci sia la guerra.
È ciò che cerchiamo di veicolare nei nostri incontri nelle scuole, non solo a Verona ma anche a Bihać, appunto. Stiamo cercando di stimolare più confronti su questioni come la parità di genere, i cambiamenti climatici e i diritti umani. Sono tutti fattori che possono spingere una persona a lasciare il proprio Paese. Se cambia il modo di rapportarci alle storie delle singole persone, può cambiare anche la nostra percezione del fenomeno”.