A due settimane dall’inizio della guerra in Ucraina e della dura risposta dell’Occidente alla Russia con sanzioni e invio di armi per la difesa di Kiev, un confronto sull’idea e sul significato pratico di pacifismo secondo Alexander Langer e David Sassoli
Si è parlato tanto, in queste due settimane di guerra in Ucraina, dell’idea di pacifismo, della legittimità dell’invio di armi dai Paesi dell’Unione Europea a Kiev per la difesa dall’invasione russa e di come un’aggressione militare possa essere risolta, con la diplomazia o con la forza. Pacifismo è un concetto complesso, non completamente sovrapponibile con quello di non-violenza e che nella sua dimensione pratica deve scendere a compromessi con le dinamiche delle relazioni tra Stati sovrani. Che in alcuni casi possono scatenare guerre senza un pretesto, assediare città e uccidere civili per la sola sete di conquista e potere. Allora bisogna capire come l’auto-difesa e la difesa dei propri valori possono coniugarsi con pratiche non strettamente previste dal pacifismo teorico: i due protagonisti di questo Progetto, Alexander Langer e David Sassoli, possono venirci in aiuto.
Pacifismo dogmatico e pacifismo concreto
Così come nel 2022 stiamo vivendo e discutendo sul rapporto tra pacifismo e intervento armato nell’aggressione militare in Ucraina, anche Langer nel 1993 faceva lo stesso con il conflitto in atto nei Balcani Occidentali: da qui può iniziare la riflessione che, come un cerchio, ci riporta nel passato prossimo di Sassoli. “C’è chi si scandalizza perché sulla Jugoslavia il pacifismo non ci sarebbe più“, scriveva quasi 30 anni fa il politico e attivista altoatesino sulla rivista Terra Nuova. Basta sostituire ‘Jugoslavia’ con ‘Ucraina’ e il parallelismo è già pronto. Lo “scandalo” sarebbe denunciato da due parti agli antipodi: quella che domanda “provocatoriamente” perché non si prende posizione contro il coinvolgimento (parziale) nella guerra, e quella che “constata con dolore che una parte del campo pacifista vorrebbe vedere un intervento internazionale per fermare la guerra”. Un intervento “politico, certo, ma con l’uso giudizioso e mirato anche della forza armata”.
Langer parlava in particolare del conflitto etnico in Bosnia ed Erzegovina e si scagliava contro “le opzioni semplicistiche, buone per accontentare i tifosi, ma sterili rispetto alla realtà”. Lui preferiva il “pacifismo concreto, con dei partner concreti”, che può dare una risposta a drammi collettivi come solo una guerra può provocare: “Epurazioni a suon di massacri, stupri, deportazioni e devastazioni a tappeto”, ma anche l’approfondirsi di “un baratro tra Est e Ovest, tra europei da difendere ed europei che possono essere macellati tranquillamente“. Tutto questo “non può trovare come unica risposta l’invocazione astratta della non-violenza”. I pacifisti – tanto nel conflitto jugoslavo degli anni Novanta quanto in quello ucraino del 2022 – “possono essere presenti, con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinita quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi”. In altre parole, “un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e più concreto“, che significa “più complicato, perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche”.
Langer faceva comunque una distinzione tra guerre etniche e quelle scatenate da un’intervento armato esterno (che al tempo poteva essere il Kuwait occupato dall’Iraq): nel primo caso “si tratta di un conflitto nel quale occorre conciliazione, non incitamento, mediazione piuttosto che sostegno armato”. In ogni caso, viene rigettato il “pacifismo dogmatico”, quello professato da persone che tornano da “un’esperienza estrema con lo stesso discorso aprioristico” che facevano prima di partire. Insomma, di chi non sa ascoltare le voci degli assediati che “chiedono disperatamente un aiuto contro gli aggressori e armi per difendersi da sé, se l’aiuto esterno non viene”. Erano i bosniaci allora. Sono gli ucraini oggi.
Un progetto di pace
In modo non troppo dissimile da Langer, anche il pacifismo di Sassoli si basa su un’idea immacolata e allo stesso tempo concretamente connessa al dipanarsi degli eventi. Ne è stato un esempio il suo pensiero sull’esercito europeo, quando diceva sì che “abbiamo voluto l’Europa come un campo di Paesi che scommettono sulla pace, non sulle attività militari”, ma anche che “sarebbe ora di averlo come supporto alla politica estera”. Il punto focale da cui non si può prescindere è ciò che il progetto di pace – l’Unione Europea – rappresenta e il motivo per cui è necessario battersi per difenderne i valori dagli attacchi esterni.
“Non siamo un incidente della Storia, ma i figli e i nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia”, sono state le parole dell’allora neo-presidente del Parlamento Europeo, nel giorno del suo insediamento il 3 luglio 2019. “Il nazionalismo che diventa ideologia e idolatria produce virus che stimolano istinti di superiorità e producono conflitti distruttivi“. Difficile non leggerci un richiamo al presente, sul fronte orientale. L’obiettivo da perseguire, giorno dopo giorno, è “recuperare lo spirito di Ventotene e lo slancio pionieristico dei Padri Fondatori, che seppero mettere da parte le ostilità della guerra e porre fine ai guasti del nazionalismo”, per dare all’Europa “un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza“. In poche parole, l’Unione Europea.
È per questo che qualsiasi popolo europeo oppresso può aspirare a unirsi al progetto di pace dell’UE, a maggior ragione chi viene minacciato e poi aggredito dalla forza militare di un Paese straniero. Fino a poche settimane fa la guerra non c’era e Sassoli non poteva prevederlo, ma già nel 2019 aveva riconosciuto che “in troppi hanno scommesso sul declino di questo progetto, alimentando divisioni e conflitti che pensavamo essere un triste ricordo della nostra storia”. Il pacifismo concreto è uno sforzo quotidiano di “difesa e promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà dentro e fuori l’UE“, diceva l’ex-presidente dell’Eurocamera, che infonde “la forza di rilanciare il processo di integrazione, cambiando la nostra Unione per renderla capace di rispondere in modo più forte” alle sfide del presente.
“Dentro e fuori l’UE” ci sono dei paletti che rendono gli europei diversi – “non migliori, semplicemente diversi”, sottolineava Sassoli – da tutti gli altri. “Ripetiamolo perché sia chiaro a tutti che in Europa nessun governo può uccidere, che il valore della persona e la sua dignità sono il modo per misurare le nostre politiche“, che in questo progetto “nessuno può tappare la bocca agli oppositori”, che “nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica”. Che da noi “ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni e che la protezione sociale è parte della nostra identità”. Ma soprattutto che “la difesa della vita di chiunque si trovi in pericolo è un dovere stabilito dai nostri Trattati e dalle Convenzioni internazionali che abbiamo stipulato”. E questo va messo in pratica. Il pacifismo è difesa, non aggressione, ma chiede un’azione per concretizzarsi.