Il 3 aprile la Serbia è chiamata al voto (triplice), in un clima teso e da appuntamento con la Storia. Sullo sfondo, le contemporanee elezioni nell’Ungheria di Viktor Orbán, alleato storico nell’UE del presidente Aleksandar Vučić
Il 3 aprile sarà un giorno cruciale per la storia recente della Serbia: nel Paese si terranno non una, ma ben tre elezioni contemporaneamente. Le presidenziali, le parlamentari (anticipate) e le amministrative (la capitale Belgrado compresa). Gli elettori serbi saranno chiamati a esprimere il proprio voto in un clima carico di tensione politica e sociale per il mantenimento o il cambiamento degli equilibri istituzionali. Non potevano mancare polemiche, scandali e colpi bassi. Ma si guarda anche oltre confine, perché nella vicina Ungheria sarà una domenica storica dal punto di vista elettorale. E, in qualunque modo vadano queste elezioni, dal 4 aprile inizierà un nuovo capitolo politico. Per la Serbia, per l’Ungheria, per i Balcani. Per l’Europa.
Il triplice appuntamento elettorale
Il 3 aprile la Serbia vivrà un momento decisivo sul piano politico, con un triplice appuntamento di elezioni. Il primo, le presidenziali. L’attuale presidente nazional-conservatore, Aleksandar Vučić è alla ricerca della riconferma, dopo cinque anni alla guida del Paese. Il parterre di sfidanti è in un certo senso sconcertante: su sette, quattro sono di estrema destra, oltre a un conservatore, un centrista e una verde. A parte la candidata della sinistra ecologista Moramo, Biljana Stojković, i principali partiti di opposizione a Vučić si affidano a Zdravko Ponoš (candidato della coalizione di centro Serbia Unita).
Poi ci sono le amministrative. Si vota in 14 distretti amministrativi: quello di Belgrado è senza dubbio il più importante. Nella capitale è testa a testa tra il candidato del Partito Progressista serbo (lo stesso del presidente Vučić), Aleksandar Šapić, e quello di Serbia Unita, Vladeta Janković. Con il terzo incomodo, Dobrica Veselinović (Moramo) a cercare di capitalizzare il proprio attivismo ormai decennale.
Terzo appuntamento, le parlamentari. Arrivano a due anni dal boicottaggio dei partiti di opposizione per le accuse al presidente Vučić di politiche illiberali nei confronti della società civili e della libertà di stampa. Dal 2020 il Partito Progressista Serbo governa con una maggioranza di 188 deputati su 250, ma lo scetticismo dei partner internazionali sul rispetto degli standard democratici del Paese ha costretto a elezioni anticipate. Sono 18 le liste in corsa per un posto all’Assemblea Nazionale. Secondo le proiezioni, il Partito Progressista Serbo sarebbe oltre il 50 per cento delle intenzioni di voto.
La campagna elettorale è ruotata attorno a temi noti (adesione UE, rapporti con il Kosovo, NATO), apparentemente nuovi (legami con la Russia, a fronte dell’invasione dell’Ucraina) e altri ancora che hanno creato forte mobilitazione: protezione ambientale e lotta contro lo sfruttamento del territorio. Alla vigilia del voto è partita per la Serbia una missione di osservazione elettorale composta da sette eurodeputati, che si unirà a quella dell’OSCE.
Serbia, Faktor Plus poll:
SNS+-EPP: 54% (+1)
US-S&D: 14%
SPS/JS~S&D: 10%
Moramo→G/EFA: 5%
NADA-*: 4%
…+/- vs. 23 February-2 March 2022
Fieldwork: 22-28 March 2022
Sample size: 1,100
➤ https://t.co/edb19vxUIg#Izbori2022 #Избори2022 #Serbia #Srbija #Србија #IzađiGlasaj pic.twitter.com/wTLcizXv6R— Europe Elects (@EuropeElects) March 29, 2022
Una campagna elettorale “sporca”
Le triplici elezioni in Serbia non è stata anticipata da una campagna elettorale facile, sotto diversi punti di vista. In primis, la consueta controversia sull’apertura dei seggi elettorali in Kosovo. Non riconoscendolo uno Stato indipendente, Belgrado avrebbe voluto che Pristina concedesse la possibilità per i cittadini kosovari di votare per le elezioni in Serbia (come già accaduto in passato con il supporto dell’OSCE). Il governo guidato da Albin Kurti e la presidente Vjosa Osmani invece si sono opposti, considerando la richiesta una violazione della sovranità del Paese (e infastidendo Bruxelles per la “tensione inutile”, parola della Commissione UE). Come già accaduto in occasione del referendum costituzionale (serbo) del 16 gennaio, i serbi-kosovari potranno votare per posta o all’ufficio di rappresentanza della Serbia a Pristina. Il governo di Belgrado ha comunque deciso di aprire per loro diversi seggi in alcune città della Serbia meridionale.
Un altro grosso problema in Serbia, che ha influenzato il cammino verso il voto, è la questione delle discriminazioni nel Paese. Secondo quanto emerge dal rapporto 2021 di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo, in Serbia sono frequenti gli attacchi di autorità e media filogovernativi contro giornalisti indipendenti, ONG, membri della comunità LGBT+, di quella rom e di altre minoranze (con diffamazioni e querele). Per non parlare degli abusi di potere da parte delle forze dell’ordine e dell’impunità ormai totale garantita ai criminali di guerra. Una delle criticità più evidenti delle elezioni 2022 in Serbia.
Nel 2022 i criminali di guerra serbi fanno campagna elettorale e si candidano per le elezioni amministrative e parlamentari, soprattutto a sostegno del Partito Progressista Serbo. Veselin Šljivančanin, ufficiale condannato a 10 anni di prigione per genocidio di 260 civili nella guerra in Croazia. Nikola Šainović, premier nel 1993 condannato a 18 anni per le deportazioni nella guerra in Kosovo. Vladimir Lazarević, generale condannato a 14 anni per omicidi e trattamento disumano di civili albanesi in Kosovo.
Ma soprattutto l’ultranazionalista Vojislav Šešelj, leader del Partito Radicale Serbo, condannato a 10 anni dal Meccanismo per i tribunali penali internazionali dell’Aia nel 2018 per crimini di guerra contro civili croati nel villaggio di Hrtkovci, nel 1992. Secondo la legge serba, se un deputato riceve una pena detentiva superiore a sei mesi, il suo mandato cessa e non può essere rieletto. Ma la misura non è mai stata applicata nel caso di Šešelj. Per scongiurare il rischio di un ballottaggio alle presidenziali, il criminale di guerra e leader del Partito Radicale Serbo ha invitato i suoi elettori a votare Vučić (fuoriuscito nel 2008, prima di fondare il Partito Progressista Serbo). Come se non bastasse, Šešelj e il suo partito sostengono la guerra di Vladimir Putin in Ucraina.
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E qui si arriva all’ultimo dei punti più controversi della campagna elettorale. Da quando il 24 febbraio la Russia ha iniziato l’invasione dell’Ucraina, quasi nessun partito in Serbia ha condannato apertamente le decisioni del Cremlino. Poche dichiarazioni, brevi, poco polarizzate. Fatta eccezione per i partiti di estrema destra, totalmente allineati con Mosca. A condannare l’aggressione militare sono stati i liberali del Movimento dei Cittadini Liberi. Moramo ha inviato un messaggio di solidarietà ai cittadini ucraini e proprio il candidato sindaco di Belgrado Veselinović ha spinto su “antimilitarismo, pacifismo e svolta europea nella nostra politica estera”.
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Serbia Unita spinge per il minor coinvolgimento possibile nella guerra, mentre il Partito Progressista Serbo al potere cerca di mantenere il più possibile l’equilibrismo della neutralità tra Occidente e Russia. Nessuna sanzione a Mosca, ma voto a favore della risoluzione ONU di condanna della violazione della sovranità ucraina. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Ma nella coalizione di governo, il Partito Socialista Serbo è strettamente legato alla Russia, che definisce “Paese amico, popolato dai nostri fratelli ortodossi, che continueremo a sostenere politicamente”. Parola del leader del partito, Ivica Dačić, dopo l’invasione dell’Ucraina. Nella logica di una Serbia difesa nel suo interesse nazionale da Mosca, il più influente protettore sulla scena internazionale.
L’asse Serbia-Ungheria
La Russia non è il solo partner internazionale a cui guarda la Serbia. Il 3 aprile segna una data decisiva anche per il grande alleato di Belgrado nell’UE (o meglio, del presidente Vučić). L’Ungheria di Viktor Orbán. Come il presidente serbo Vučić, anche il premier ungherese Orbán punta alla rielezione (la terza consecutiva), dopo 12 anni ininterrottamente al potere. Nonostante le differenze ideologiche, i sei partiti di opposizione (dalla destra nazionalista ai socialisti) si sono uniti contro il sistema di governo del partito al potere Fidesz. Il candidato comune è l’economista conservatore Péter Márki-Zay, che ha promesso battaglia al “sistema criminale in atto da 12 anni”.
Alla vigilia del voto, i sondaggi confermano il testa a testa tra Fidesz e l’opposizione unita, con il partito del premier Orbán in vantaggio: 50 per cento contro il 45 delle forze politiche guidate da Márki-Zay. Anche l’Ungheria di Orbán mostra carenze sulla libertà di stampa e sui diritti delle minoranze, come dimostra la consultazione sul referendum anti-LGBT+ che si terrà lo stesso giorno delle elezioni. In Ungheria, esattamente come in Serbia, sarà una resa dei conti storica su diversi livelli.
I due leader nazionalisti sono legati da stima reciproca e da un rapporto particolarmente stretto a livello politico e personale. Il presidente serbo ha preso a modello il premier ungherese come uomo forte all’interno dell’UE: “È un veterano della politica europea”, ha dichiarato nell’incontro tra i due lo scorso anno. Dall’altra parte, è forte l’interesse per un alleato dalle simili vedute nei Balcani Occidentali, considerato l’allargamento dell’Unione nella regione e il potenziale bacino di influenza per Budapest. Non è un caso se Orbán ha equiparato il ruolo di Belgrado per la stabilità dei Balcani a quello della Polonia (strettissimo alleato) nell’Europa centrale: “È più nell’interesse dell’UE avere con sé la Serbia, piuttosto che di Belgrado entrare nell’Unione”. Apprezzamenti corrisposti da Vučić: “Molti dicono di appoggiare il percorso della Serbia verso l’integrazione nell’Unione, ma sono pochi quelli che lo fanno apertamente e con coraggio, disposti anche a incassare critiche, come lo fate voi”.
È tutto pronto, in Ungheria e in Serbia, per le elezioni del 3 aprile. Un giorno che segnerà un punto di non ritorno per le prospettive della politica interna dei due Paesi. Ma anche per il vento – nazionalista, o di novità – che soffierà sul processo di allargamento dell’UE nei Balcani.