Fahrije Hoti, imprenditrice kosovara, guida una cooperativa che produce ajvar, la salsa tipica balcanica. Ma la sua attività è soprattutto un luogo di rinascita per donne e vedove di guerra come lei
Ci sono pochi dubbi che, se si dovesse indicare un minimo comune denominatore per tutti i Balcani Occidentali, dal Kosovo alla Serbia, dalla Macedonia del Nord alla Croazia, la risposta risiederebbe in cinque lettere: ajvar. L’ajvar è il più tipico cibo balcanico, che ogni Paese rivendica come propria invenzione. Una salsa il cui ingrediente principale è il peperone, da spalmare sul pane o da usare come condimento per carne e ćevapčići.
Ma l’ajvar nei Balcani è ben più di una salsa. È un elemento identitario, un legame viscerale con la terra, con le tradizioni e con la propria cultura. In alcuni casi può rappresentare anche il riscatto di una persona. O meglio, di una donna, di una vedova di guerra. Inizia così la storia imprenditoriale di Fahrije Hoti alla guida di Kooperativa Bujqësore ‘KB KRUSHA’. Azienda che nel paese di Krushë e Madhe, in Kosovo, produce ajvar, peperoni e peperoni sott’aceto. Hoti ha 52 anni, è madre di due figli e nonna di due nipotine. Ed è moglie di un marito disperso dai tempi della guerra in Kosovo. Più precisamente dal 25 marzo 1999, il giorno dei massacri di Krushë e Madhe.
Il suo riscatto, finita la guerra, è stato semplicemente ricominciare a vivere. Ma a suo modo, non secondo i diktat di una società che le richiedeva di stare a casa a pensare solo alla cura dei figli. Dopo quasi 20 anni dirige una cooperativa che dà lavoro ad altre 50 donne, la maggior parte con un passato e ferite psicologiche simili alle sue, ed è diventata un punto di riferimento imprenditoriale e umano per un intero Paese. Non solo è stata nominata cittadina europea 2022 in Kosovo, ma la sua storia ha anche ispirato il film albanese-kosovaro Hive, in lizza per la nomination agli Oscar 2022 come miglior film internazionale.
Riappropriarsi della vita
Fahrije, dove hai trovato la forza per iniziare questa attività?
“Questa attività è legata a ciò che io, come altre donne, facevo prima della guerra. La mia famiglia si occupava principalmente di agricoltura e di coltivazione di peperoni. Dopo la guerra, quando siamo tornati in Kosovo dall’Albania – dove eravamo rifugiati – la nostra situazione emotiva ed economica era a pezzi: le nostre case erano state bruciate, gli uomini erano scomparsi e dovevamo occuparci dei bambini piccoli. Così nel 2003 ho deciso di diventare la prima donna a fondare una ONG, Widow Women. Ho cercato di fare il più possibile per il destino delle famiglie delle persone uccise o disperse durante la guerra in Kosovo.
Mi sono occupata anche di apicoltura, vendendo il miele ottenuto al mercato locale, per garantire un reddito alla mia famiglia e ai miei figli. Tuttavia, ho notato maggiore interesse per sottaceti e ajvar fatto in casa e per questo motivo ho iniziato a produrre ajvar in piccole quantità e a venderlo. La curiosità per i prodotti delle donne di Krushë e Madhe continuava a crescere, così ho deciso di chiamare altre vedove del paese per unirsi a questa produzione. Nel 2005 abbiamo iniziato ufficialmente l’attività. Da quando ho ottenuto la patente di guida, abbiamo aggiunto anche la distribuzione di tutti i nostri prodotti locali”.
Come è cambiata l’attività nel tempo?
“È cresciuta di giorno in giorno, insieme all’interesse per i nostri prodotti. All’inizio ero da sola, ma già nel 2006 eravamo cinque donne. Anche le vendite sono cresciute di anno in anno nel mercato locale. Nel 2014 abbiamo deciso di esportare per la prima volta i nostri prodotti in Svizzera [dove vive la maggior parte della diaspora kosovara, ndr]. Dopo un anno, non solo sono aumentate la capacità produttiva e la forza lavoro, ma anche le esportazioni verso altri Paesi europei. Oggi, KB KRUSHA soddisfa la domanda sia del mercato interno sia per l’esportazione verso Svizzera, Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Benelux e Stati Uniti. La cooperativa dà lavoro a 50 dipendenti. Il totale sale a cento, quando sono impiegate anche le lavoratrici stagionali”.
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Quali sono state la più grande soddisfazione e la più grande difficoltà affrontate in tutti questi anni?
“La soddisfazione più grande è stata quella di riuscire a diventare imprenditrice, a integrarmi nel mondo del lavoro, a garantire buone condizioni di vita ai miei figli e a educarli. Ma anche coinvolgere altre donne, vedove o non vedove, in questa attività lavorativa, per ricucire insieme le ferite della guerra e andare avanti con la vita.
Invece, la difficoltà maggiore l’ho incontrata nei primi anni di lavoro. Come altre donne e vedove, ho affrontato personalmente il sistema patriarcale e la discriminazione delle donne nel mondo del lavoro e degli affari. Ma il desiderio di lavorare e di garantire un reddito alla mia famiglia mi ha dato la forza di continuare e di non arrendermi. Nel corso degli anni ho superato queste barriere e, insieme alle altre donne, sono riuscita a raggiungere i miei obiettivi”.
Combattere il patriarcato, guarire le ferite
Cosa significa gestire un’attività di questo tipo, come donna e come vedova di guerra?
“In quanto vedova, molti si aspettavano che rimanessi a casa, invece di avviare un’attività da zero. È normale che l’inizio non sia facile. Tuttavia, ho dovuto affrontare un diverso trattamento rispetto agli uomini nello svolgere lo stesso lavoro. Allo stesso tempo, ho ricevuto il sostegno di altri gruppi di donne, di diverse organizzazioni governative e ONG.
Nella vita, tutti sperimentiamo qualcosa che ci butta giù. Ma non bisogna arrendersi e continuare ad andare avanti e raggiungere i nostri obiettivi. Gestire un’impresa ed essere una vedova in un paese del Kosovo significa affrontare gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino, diventando una fonte di ispirazione e motivazione per altre donne e ragazze che vogliono entrare o sono già nel mondo degli affari”.
In che modo questa attività ha aiutato te e le tue dipendenti ad affrontare il passato?
“Questa attività gestita da donne non è solo redditizia, ma per la maggior parte delle lavoratrici è anche un’istituzione a livello psicologico. In questa azienda, infatti, trascorriamo il tempo l’una con l’altra e condividiamo la nostra storia e il nostro dolore. Non importa il livello di stress, ci sono momenti in cui i ricordi della guerra tornano a galla. Ma qui, nella Kooperativa Bujqësore, ridiamo, mettiamo un po’ di musica e balliamo. Ci aiutiamo a vicenda per alleviare la sofferenza psicologica”.
Come pensi che avreste affrontato le conseguenze della guerra senza questa cooperativa?
“Grazie a questa attività siamo riuscite a uscire di casa, a fare nuove esperienze e a imparare un mestiere. E abbiamo anche una ragione per vivere, per andare avanti nonostante il dolore e i ricordi della guerra, che non dimenticheremo mai. Se la cooperativa non esistesse, la maggior parte delle donne vivrebbe in modo passivo, senza alcun reddito, e la noia dominerebbe la loro vita. Avrebbero fatto fatica a crescere ed educare i propri figli, ricordando solo i momenti terribili della guerra“.
Dentro un barattolo di ajvar
Puoi spiegarci come è strutturato il lavoro della cooperativa?
“Siamo state una cooperativa dal 2005 al 2016. Poi l’abbiamo trasformata in azienda, altrimenti non avremmo avuto diritto a prestiti e sovvenzioni. Tuttavia, abbiamo deciso di non cambiare il nome, mantenendo Kooperativa Bujqësore ‘KB KRUSHA’. L’azienda impiega 50 lavoratori: il 90 per cento sono donne e la maggior parte di loro sono vedove di guerra. Offriamo lavoro anche a ragazze giovani, che hanno bisogno di un sostegno finanziario per la loro istruzione durante i mesi di vacanza.
L’anno scorso l’azienda ha prodotto circa 1,2 tonnellate di peperoni, ajvar e peperoni sott’aceto. La produzione di ajvar è stagionale, dal momento in cui i peperoni appositi maturano dalla fine di agosto a ottobre. In questo periodo dell’anno ci concentriamo su questa produzione, visto che rimane il nostro marchio: prepariamo tra i mille e i duemila barattoli di ajvar al giorno“.
Quali progetti ci sono per il futuro dell’azienda?
“Abbiamo avuto la fortuna di vincere una sovvenzione della Commissione Europea in Kosovo nel 2020, per la costruzione di uno stabilimento conforme agli standard europei. Ora stiamo svolgendo le nostre attività nella nuova fabbrica, finanziata insieme alla Commissione. I nostri piani per il futuro sono di aumentare la produzione, portare nuovi prodotti sui mercati ed espandere l’attività commerciale, creando nuove opportunità di lavoro per donne, ragazze e ragazzi. Allo stesso tempo, dobbiamo mantenere alti i livelli di qualità”.
L’ultima domanda è molto personale. Che cosa significa per te l’ajvar?
“Penso che ognuno abbia un punto di partenza, una sorta di segnale che ci aiuta ad andare avanti nella vita. Per me è stato l’ajvar. Quando ho iniziato a produrlo, sono entrata nel mondo del lavoro e ho iniziato a imparare cose nuove e a motivarmi. L’ajvar rimane il nostro prodotto principale, il marchio della nostra azienda. A partire dall’inizio della sua preparazione fino all’imbottigliamento, seguo ogni fase della produzione dell’ajvar. Sono ancora attiva”.