Il nome della penisola balcanica è legato alle montagne, anche se con un errore storico. Ma origine e sviluppo del termine si spingono ben oltre, come spiega in un’intervista la sociologa Chiara Milan
Ci sono domande esistenziali a cui è inevitabile cercare di darsi una risposta. Per esempio, perché i Balcani si chiamano proprio Balcani? La risposta più scontata sarebbe “perché la regione prende il nome dai Monti Balcani”. E già qui c’è un errore. Perché la risposta è ben più articolata e ci coinvolge direttamente come cittadini europei, nella percezione che assorbiamo e veicoliamo di una regione spesso marginalizzata ed esclusa dal resto del continente.
Ecco perché a questa semplice domanda – perché i Balcani si chiamano Balcani? – proveremo a rispondere in modo più ampio, chiedendo il supporto di una figura esperta che conosce a fondo la realtà balcanica. Con Chiara Milan, sociologa e ricercatrice presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dove coordina il Network Jean Monnet ‘Transnational Political Contention in Europe’, andiamo alla ricerca del significato profondo del termine ‘Balcani’.
Balkan come ‘montagna’
“Considerando i Balcani, si può partire dall’idea geografica“, spiega la sociologa Milan. “Il termine balkan ha un’origine turca, significa appunto monte”. La parola, coniata per la prima volta all’inizio dell’Ottocento dal geografo tedesco August Zeune, “indicava la catena montuosa tra la Serbia e la Bulgaria e poi il termine è stato esteso per identificare tutta la penisola”. Un errore, dunque, considerato il fatto che la catena montuosa che attraversa la penisola da nord-ovest (Slovenia) a sud-est (Grecia) è quella delle Alpi Dinariche, non dei Monti Balcani. Storicamente si è però imposto l’uso del termine ‘Balcani’, con cui “si identificava la parte europea dell’Impero Ottomano”. Dopo più di due secoli “oggi con Balcani Occidentali ci si riferisce agli Stati dell’ex-Jugoslavia, più l’Albania, e a volte per esteso anche a Bulgaria, Romania e Grecia”.
Se sono davvero legati a una questione geografica, che si interseca con l’eredità storica e culturale, dov’è che iniziano i Balcani? Tutte le contraddizioni e le complessità identitarie legate a un nome ricco di significati sono state formulate dal filosofo e politologo sloveno Slavoj Žižek nel suo The Spectre of Balkans: “Per i serbi, difensori della civiltà cristiana contro l’Altro rispetto all’Europa, inizia laggiù in Kosovo o in Bosnia. Per i croati inizia con la Serbia ortodossa, dispotica e bizantina, contro la quale la Croazia difende i valori della civiltà democratica occidentale. Per gli sloveni inizia con la Croazia, e noi sloveni siamo l’ultimo avamposto della pacifica Mitteleuropa. Per gli italiani e gli austriaci inizia con la Slovenia, da dove si sviluppa il regno delle orde slave. Per i tedeschi la stessa Austria, a causa dei suoi legami storici, è già contaminata dalla corruzione e dall’inefficienza balcanica”.
Ma l’immaginario – lo stereotipo – ‘balcanico’ si spinge anche oltre: “Per alcuni francesi arroganti la Germania è associata alla barbarie orientale balcanica. Fino al caso estremo di alcuni inglesi conservatori anti-Unione Europea, per i quali in modo implicito è l’intera Europa continentale a funzionare come una sorta di impero globale turco balcanico, con Bruxelles come nuova Costantinopoli, il centro dispotico capriccioso che minaccia la libertà e la sovranità inglese. Così i Balcani sono sempre l’Altro: si trova da qualche altra parte, sempre un po’ più a sud-est. Con il paradosso che, quando si raggiunge il fondo della penisola balcanica, si sfugge di nuovo magicamente dai Balcani. La Grecia non fa più parte dei Balcani veri e propri, ma è la culla della nostra civiltà occidentale”.
Come conferma la sociologa Milan, “dal livello di instabilità che ha caratterizzato la regione in diverse fasi storiche” – dall’Impero Ottomano a quello Austro-Ungarico, fino alle vicende del Novecento – “è nata l’accezione negativa che il termine ‘Balcani’ ha assunto”. Per esempio, ‘balcanizzazione’ è una forma spregiativa di intendere la “divisione su base etnica degli Stati”. Oppure l’uso di espressioni come ‘polveriera balcanica’ per identificare “una zona che sarebbe caratterizzata da arretratezza e animosità”. Questo avviene soprattutto negli Stati dell’Europa centro-occidentale, che “faticano a comprendere, accogliere e valorizzare i tratti culturali, sociali, politici e religiosi caratterizzanti di quest’area”.
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Si tratta di una sorta di “visione eurocentrica” spostata verso ovest, che ha dato origine a una “percezione negativa, fatta di nazionalismi e arretratezza, di una regione che invece potrebbe fornire spunti molto interessanti”. Per Milan una dimostrazione la offre la Bosnia ed Erzegovina: “Il pluralismo religioso, la tolleranza e la convivenza inter-etnica sono un modello che per anni ha funzionato, anche se si tende a guardare solo alla guerra, alla radicalizzazione e a come queste differenze sono state manipolate”. Anche l’esperienza socialista della Jugoslavia di Tito potrebbe avere degli ottimi risvolti di analisi, come dimostrano “attivisti e attiviste locali, con una rivalutazione dell’autogestione e di meccanismi di democrazia che sono andati persi nel periodo post-bellico”.
Dai Balcani ai Balcani Occidentali
Cioè i fondatori dell’Unione Europea e gli attuali membri di maggior peso, con poco spazio a quelli che l’Unione stessa ha definito Balcani Occidentali: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. “A livello retorico è facile creare confusione tra Unione Europea ed Europa“, commenta Milan, facendo un riferimento caro a BarBalcani: «Voglio citare un grande pacifista come Alexander Langer. Nel 1995 invocava l’intervento dell’Unione Europea in Bosnia, dicendo ‘l’Europa rinasce o muore a Sarajevo‘ e portando l’attenzione sul fatto che si stesse parlando del cuore dell’Europa”.
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Vent’anni più tardi la sociologa Milan ha seguito le proteste del 2014 in Bosnia: “Hanno portato avanti istanze sociali ed economiche nate in un contesto europeo di crisi economica, che ci ha riguardati tutti”. Insomma “i Balcani Occidentali sono al centro dell’Europa, anche se le richieste di Langer non sono state ascoltate”. Nel frattempo anche il progetto europeo è cambiato, così come le sue priorità. “Al centro del dibattito ora c’è la questione migratoria e la sicurezza dei confini, è qui che i Balcani Occidentali tornano a essere interessanti per l’Unione Europea“. Mentre negli anni Novanta c’era “entusiasmo per un’Europa intesa come processo politico e sociale”, oggi l’Unione sembra essere più interessata alla “questione geopolitica del controbilanciare i tentativi di influenza di Cina, Russia e Turchia”. Inizia a delinearsi insomma una “separazione tra il progetto di un’Europa di popoli, in cui le diversità possono essere incluse e valorizzate, e un’Unione Europea che vuole tutelare i propri confini”.
Tutto questo è emerso anche dalle ricerche di Transnational Political Contention in Europe (TraPoCo) in collaborazione con Osservatorio Balcani Caucaso, sulla mobilitazione della cittadinanza negli anni Novanta a supporto dei popoli dell’ex-Jugoslavia e quella dei volontari recatisi negli stessi luoghi nel 2020 per supportare i rifugiati in arrivo. “Se negli anni Novanta queste persone esprimevano fiducia verso il progetto europeo, oggi c’è scetticismo e quasi disaffezione verso un’Unione Europea che non interverrà per l’accoglienza dei rifugiati“, è quanto riporta la coordinatrice del progetto. “La fiducia sembra essere rimasta solo verso il Parlamento Europeo, ma non verso le altre istituzioni”.
Tornando a Bruxelles, una delle critiche maggiori che si possono fare alla Casa della Storia Europea è quella di tralasciare alcuni elementi caratterizzanti di regioni come i Balcani (l’eredità dell’Impero Ottomano e l’apporto culturale e sociale dell’Islam), per dare più spazio a quelli in cui si riconoscono meglio i Paesi che cercano di imporre il proprio modello culturale. Il caso per eccellenza è rappresentato dalle tanto celebrate ‘radici cristiane dell’Europa’. “Credo che troppo spesso si dia un peso maggiore alla religione rispetto allo stato della democrazia“, mette in chiaro Milan: “Dobbiamo ricordare che i Paesi dei Balcani Occidentali hanno anche una tradizione cristiana, così come nel resto d’Europa ci sono molti nuovi europei che hanno un background musulmano, ma non per questo sono meno europei”. D’altra parte “sullo stato della democrazia si tende a chiudere un occhio sui cosiddetti stabilocrati“, come il presidente serbo, Aleksandar Vučić. A questi politici Bruxelles si affida “perché promettono riforme e l’impegno ad aderire all’Unione, ma all’interno governano basandosi su clientelismo e corruzione e non garantiscono vera libertà di espressione”.
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La speranza di chi si riconosce nell’europeismo come elemento di unità tra popoli legati da una storia, una geografia e un immaginario collettivo comune – dai Balcani alla Scandinavia – è che qualcosa cambi con l’ingresso di tutta la regione balcanica nell’Unione Europea. “Bisogna fare attenzione alla retorica dell’Unione Europea come fine ultimo e soluzione a tutti i problemi», è l’avvertimento della sociologa Milan, considerato che “le prospettive di allargamento e integrazione non sono chiarissime e c’è un po’ di scetticismo tra cittadini balcanici, perché non si sentono inclusi”.
Anche se in alcuni ambiti, come i diritti delle persone LGBTQIA+, “alcuni passi avanti sono stati fatti e l’Unione Europea si è posta come garante”. E non si può nascondere nemmeno la speranza che “si costruisca un’Europa a partire dai giovani, che saranno parte integrante di questo progetto e ne vedranno i benefici non solo economici”. La distinzione tra Balcani Occidentali e Unione Europea allora sparirà, ma ‘Europa’ rimarrà ancora un concetto a sé stante. Un ideale puro di valori democratici, civili e umani a cui popoli e Stati possono aspirare e riconoscersi.
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La fine dell’intervista con Chiara Milan riserva un’altra sorpresa, un riferimento inaspettato a qualcosa che presto arriverà per i lettori e le lettrici di questa newsletter… “Quando si parla di Balcani e stereotipi, consiglio sempre di ascoltare i Dubioza kolektiv. Sono un esempio di autoironia su quella ‘balcanizzazione’ che soprattutto i bosniaci subiscono, e l’album Wild Wild East è geniale”, confessa con entusiasmo. “Spesso consideriamo solo i rappresentanti politici, ma se guardassimo alla sfera culturale e musicale potremmo scoprire moltissimo su questa regione”. La sua conclusione è tutta un programma e ci guida verso la prossima tappa di BarBalcani: “Bisognerebbe ascoltare più Dubioza kolektiv e parlare meno con i governanti!”
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