Intervista ad Andrea Segre, regista del film Trieste è bella di notte che denuncia la pratica illegale delle “riammissioni informali” di persone migranti al confine tra Italia e Slovenia. L’ultimo inganno alla fine del ‘Game’
Ci risiamo. Quante volte abbiamo detto che le parole sono importanti? E che ogni vita conta? Eppure oggi ci ritroviamo ancora qui a parlare di violazioni di diritti umani e dell’uso di parole edulcorate, di eufemismi contorti per mascherare una realtà semplice nella sua crudezza. Alle frontiere dei Paesi membri dell’Unione Europea vengono costantemente violati i diritti fondamentali su cui si basa l’Unione stessa, ai danni di chi arriva dopo un viaggio estenuante lungo la rotta balcanica richiedendo protezione internazionale. Non importa se con la violenza o con l’inganno, alle frontiere esterne o alle frontiere interne. Che siano pushback o ‘riammissioni informali’, è sempre lo sfoggio della legge del più forte messa in atto dallo Stato. Della sopraffazione di persone la cui unica colpa è quella di cercare un futuro migliore attraverso quella cosa che l’essere umano sa fare meglio da millenni. Migrare. Di tutto questo oggi parliamo con Andrea Segre, uno dei tre autori del film documentario Trieste è bella di notte, che accende i riflettori e ci chiama a prendere posizione su una delle pratiche illegali meno note di tutta la rotta balcanica. Perché se Trieste è bella di notte, di giorno che succede?
Confini e inganni
Segre ricorda che “qualcuno ha detto che non ci sono stati momenti di felicità, qualcuno che non riusciva a rispondere alla domanda, altri hanno raccontato qualcosa”. E tra chi ha trovato la forza di farlo c’è “Daniel, uno dei protagonisti”. Il suo momento di felicità “è stato quando, superato il confine tra Italia e Slovenia, sulle colline sopra Trieste ha visto la città dall’alto e le luci sul golfo”. E allora si è fermato a pensare ‘Trieste, di notte, è molto bella’. È una frase “semplicissima, ma che produce la sensazione che c’è qualcos’altro, senza doverlo esplicitare”. Per i tre autori del film “ha la forza di diventare un titolo, perché contiene nella sua semplicità un dubbio strisciante: ‘Sì, perché invece di giorno che succede?'” Esatto. A Trieste, di giorno, che succede?
Al confine tra Italia e Slovenia – un confine interno all’Unione Europea tra due Paesi Schengen (che hanno abolito i controlli alla frontiera) – le persone migranti che hanno percorso la rotta balcanica e sono riuscite ad arrivare a Trieste rischiano di essere fermate dalle forze dell’ordine italiane e rispedite indietro. Dall’Italia alla Slovenia, dalla Slovenia alla Croazia, dalla Croazia alla Bosnia ed Erzegovina. Senza essere identificate e senza la possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale. Due obblighi per lo Stato italiano, due diritti per chiunque arrivi alle frontiere di un Paese membro UE.
Il Ministero degli Interni italiano dal maggio 2020 definisce queste operazioni ‘riammissioni informali’. È un eufemismo ben ricercato, come sottolinea Segre: “Sa che non può chiamarle respingimenti, perché i respingimenti sono illegali”. Eppure di questo stiamo parlando. Pushback, respingimenti illegali per impedire l’accesso al territorio a persone che hanno diritto di richiedere la protezione internazionale. Lo ha stabilito anche il Tribunale di Roma nel 2021, in uno storico pronunciamento contro lo Stato italiano. “Il termine contiene tutte le contraddizioni che sono insite nella strategia delle politiche securitarie europee”, è la denuncia del regista: “Se prima erano schierate soprattutto lungo i confini esterni, ora stanno piano piano corrodendo la tenuta del tessuto democratico anche nei confini interni dell’Unione Europea”.
Dopo la sentenza del Tribunale di Roma per un anno e mezzo le ‘riammissioni informali’ sono state sospese, ma dal 28 novembre 2022 il nuovo ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, le ha riattivate. E come avvengono queste operazioni di respingimento? “Con l’inganno, non c’è un altro modo, altrimenti dovrebbero avvenire con la violenza”. Basti pensare a cosa succederebbe se si negasse apertamente la possibilità di fare richiesta di asilo a una persona che arriva da “quello che può aver vissuto in Afghanistan, e poi nel deserto dell’Iraq, in Turchia, in Bulgaria, le manganellate croate”. E tutto ciò che implica tentare il Game per superare le tre frontiere che dalla Bosnia si frappongono alla stazione di Trieste, senza essere intercettati dalla polizia. “Sicuramente inizierebbe a urlare, dimenarsi e cercare di scappare, e non ci sarebbe nessun altro metodo che la violenza per rimandarla indietro”.
Ecco perché “l’unico modo è l’inganno“. Nella pratica “le persone vengono caricate in camionette, dicendo loro che saranno portate in un centro di accoglienza. Invece vengono portate dall’altra parte della frontiera, in Slovenia, e una volta lì è difficile opporsi a scendere”. O ancora, “vengono fatti firmare falsi documenti, in cui si dice loro che stanno facendo richiesta di asilo. E ovviamente non è vero”, continua Segre. Al netto di tutto questo, “se fai la domanda a caldo C’è mai stato un momento di felicità in questo viaggio? a una persona che ha appena attraversato la rotta balcanica, può giustamente sputarti in faccia”, scherza (ma non troppo) il regista. Ma se la stessa domanda arriva “dopo un dialogo, si può capire l’intensità di un tentativo di lavorare su alcune contraddizioni e momenti di speranza e felicità che durante un’esperienza così lunga possono anche aprirsi”.
Voci e immagini in prima persona
È così che è iniziato il lavoro documentaristico, fatto di interviste alle persone che hanno subito questi respingimenti: “L’abbiamo girato al confine tra Italia e Slovenia, nella zona Fernetti e dentro Casa Malala, e a Bihać, uno dei punti di transito dalla Bosnia alla Croazia”. Altre due interviste hanno poi avuto luogo a Roma. Una con la giudice Silvia Albano, “che ha scritto la sentenza di condanna di primo grado sulle ‘riammissioni informali'” e l’altra con l’allora prefetto di Trieste, Annunziato Vardé “in rappresentanza del Viminale, perché [l’allora ministra degli Interni, ndr] Lamorgese aveva deciso che non avrebbe dato lei l’intervista”, precisa Segre.
Il documentario mostra due caratteristiche principali, «presenti in tutti i documentari di ZaLab sulle migrazioni dal 2008 a oggi”. L’utilizzo di filmati girati direttamente dalle persone migranti e l’assenza di una voce fuori campo. “Un buon 30/40% del film è girato attraverso video dei cellulari, anche montati da storie TikTok e Instagram”. Una caratteristica che fornisce una visione in prima persona del viaggio lungo la rotta balcanica da chi l’ha fatto.
La seconda caratteristica è “una linea editoriale e di posizionamento etico ed estetico, che dà forza narrativa”. Come rivendica Segre parlando di questa scelta, “le persone devono poter parlare nella lingua che decidono, che sia la madrelingua o un’altra con cui si sentono a loro agio”. Al centro dell’intervista non c’è il regista, ma la persona. “Io posso anche non capire”, al punto che “ci sono situazioni in cui non abbiamo traduttori o mediatori”. Quando invece è possibile, “li cerchiamo in contesti di condivisione dell’esperienza del protagonista”, come nel caso di Trieste è bella di notte: “Ha collaborato con noi Ismail Swati, migrante pachistano arrivato in Italia e ora mediatore culturale a ICS”.
Ma in ogni caso “al mediatore/traduttore non chiediamo di interrompere spesso il flusso del racconto, non ci facciamo tradurre tutto come può fare un giornalista per un reportage, perché deve diventare un racconto in prima persona”. È così che “per lunghi minuti ascoltiamo farsi, pashtu e altre lingue che non capiamo, ma riuscendo in qualche modo a seguire l’andamento emotivo e narrativo di quel racconto”. Segre sottolinea che in questo modo “la persona intervistata ha più potere del regista e si sente convocata in prima persona a gestire il racconto”. In un secondo momento anche lo spettatore ne è impattato: “Si sente destinatario di un racconto e non di un’inchiesta condotta da altri”. In definitiva, “la voce fuori campo non serve più a nulla“. Tutto il lavoro di sbobinatura delle interviste, traduzione e montaggio fa il resto.
Responsabilità istituzionali e civili
Un altro elemento che “rende la storia molto interessante, perché racconta una tensione ontologica dello Stato europeo – non solo italiano – che si ritrova sempre più ad agire in modo contrario alla propria Costituzione democratica e al proprio ordinamento legale”. In altre parole, “cose che non potrebbe mai fare ai propri cittadini, le fa sugli altri perché decide che sono minori, che hanno meno diritti“. Non c’è una parola diversa da “discriminazione” per descrivere queste azioni. E, se ci si ferma un attimo a pensare, “stiamo rischiando di rifare ciò che è accaduto in momenti molto bui della nostra storia”. Viene raccontata dalla politica nazionale come ‘protezione e difesa del territorio’ ma, come mette in chiaro il regista del film, “se la differenza tra chi passa il confine è il colore della pelle o il passaporto, stiamo discriminando i diritti”.
La sentenza del Tribunale di Roma definisce queste responsabilità con molta precisione, indicandone tre a livello legale. “Primo, per la Costituzione italiana e per le leggi europee non si può espellere nessuno dal proprio territorio senza un atto giuridico”, precisa Segre. Ma se le riammissioni sono ‘informali’, significa che nessuno ha scritto o firmato nulla per prendersi la responsabilità: “Non ci può essere però atto amministrativo o gestionale della forza dell’ordine che non prevede un’ufficialità”.
“Secondo, non si può espellere chi fa richiesta di protezione internazionale senza prima averla esaminata“. E in ogni caso “non si può espellere nessuno, a prescindere dalla richiesta di protezione, senza prima aver verificato che quell’espulsione non metta la persona in una condizione di rischio”.
“E terzo, le autorità italiane sanno cosa succede a queste persone“, conclude Segre. Gli italiani le portano in Slovenia, gli sloveni in Croazia, i croati in mezzo ai boschi al confine con la Bosnia, li menano e li espellono. “Tutti sono assolutamente consapevoli di essere parte della catena e quindi complici di un respingimento violento extra-Schengen“.
C’è una frase che, con una semplicità che arriva dritta come un pugno in faccia, svela tutte le ipocrisie nascoste dietro queste azioni illegali da parte degli Stati membri UE. Il riferimento è a un passaggio del film, in cui uno dei protagonisti con molta serietà dice: ‘Allora a questo punto forse ha più senso che l’Europa smetta di avere una legislazione sul diritto di asilo’. “Se questo è quello che succede concretamente, allora non createci la chimera di pensare che siete la terra della protezione e dell’asilo”, è la parafrasi del concetto fornita dal regista. Perché ognuna delle persone che si mette in viaggio “sa che in teoria l’Europa dovrebbe essere questo, soprattutto in confronto ai luoghi da cui arrivano”.
Il ruolo dei cittadini europei – per prendere consapevolezza di una realtà sconosciuta ai più, diffonderla e denunciarla in tutte le sedi istituzionali e non – diventa ancora più cruciale dopo aver visto un film come Trieste è bella di notte. “C’è ancora una quantità enorme di persone che non ha idea di cosa sia la rotta balcanica, perché tutta l’attenzione è dragata dalla maggiore visibilità e mediatizzazione della rotta mediterranea”, sottolinea Segre, confessando che “tutti noi siamo rimasti stupiti dal fatto che molta gente è uscita dal cinema dicendo che non sapeva nulla della rotta balcanica o del Game“. In mezzo a una quantità infinita di altre migliaia di notizie, contenuti e immagini “forse ne hanno anche sentito parlare”. Ma vederlo di fronte a un grande schermo, nel buio di una sala cinematografica e insieme a molte altre persone è tutta un’altra esperienza. Decisamente più impattante.
“Noi di ZaLab crediamo che il cinema abbia il potere di costruire un’attenzione che non è facilmente e rapidamente consumabile“, mette in chiaro uno dei sei film-makers e operatori sociali che compongono il collettivo. “Sedimentandosi, può formare gruppi e comunità di attenzione – ‘minoranze resistenti’ – che sono fondamentali per le vite delle persone”. Soprattutto per chi vede i propri diritti calpestati ogni giorno. Tra eufemismi edulcorati che tentano di nascondere violazioni dei diritti umani.