Il Progetto Langer-Sassoli si chiude con l’approfondimento che ne racchiude l’essenza: dalle macerie del passato tragico dei Balcani e della Bosnia ed Erzegovina può fiorire un progetto di convivenza non solo nella regione, ma in tutta Europa
È l’ultimo approfondimento del Progetto Langer-Sassoli ed arrivato il momento di tirare le fila di questo discorso, che ha avuto come pilastri alcune delle tematiche portanti del pensiero politico di Alexander Langer e di David Sassoli: il pacifismo, l’ambientalismo, l’europeismo e l’inclusione della penisola balcanica nel progetto di un’Europa unita. Per farlo, può essere esemplificativo prendere in esame il più tormentato del Paesi balcanici, la Bosnia ed Erzegovina, e analizzare il suo rapporto con l’Europa.
Perché sia durante la guerra tra il 1992 e il 1995, sia nel decennio – ancora in corso – di avvicinamento all’Unione Europea, la gestione delle crisi bosniache è il caso che mostra con maggiore evidenza quanto sia necessario un impegno deciso per l’integrazione in un quadro politico più grande, in cui si diluiscano le tensioni etniche e sociali. Un impegno che sia Langer sia Sassoli hanno messo in luce, ma che è ancora distante dal realizzarsi. E tutti i Balcani Occidentali ne stanno avvertendo le conseguenze.
L’Europa muore o rinasce a Sarajevo
L’ultimo articolo di Alexander Langer è datato 25 giugno 1995 ed è stato pubblicato sul mensile La terra vista dalla luna. Il titolo è paradigmatico per l’eredità lasciata dal politico altoatesino: L’Europa muore o rinasce a Sarajevo. “Siamo andati a Cannes, dunque, a manifestare davanti ai capi di stato e di governo, per la Bosnia ed Erzegovina”, raccontava Langer a proposito del Consiglio Europeo del 26-27 giugno 1995. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione Europea alla Bosnia, bisogna arrivare ad un punto di svolta!” Parole che, a 27 anni di distanza, sembrano più attuali che mai (anche senza una guerra in atto nel Paese balcanico).
Dopo la manifestazione in piazza “ci riceve Jacques Chirac in persona” (il presidente francese e di turno del Consiglio dell’Unione Europea). “Al nostro appello risponde che sì, liberare Sarajevo dall’assedio è una priorità, ma che non esistono buoni e cattivi, e che non bisogna fare la guerra“, è il resoconto del colloquio prima del vertice dei leader UE: “Ci guardiamo, la deputata verde belga Magda Aelvoet e io, entrambi pacifisti di vecchia data: che strano sentirsi praticamente tacciare di essere guerrafondai dal presidente neo-gollista, che pochi giorni prima aveva annunciato la ripresa degli esperimenti nucleari francesi nel Pacifico!”.
Nell’articolo di Langer viene riportata nel dettaglio la dichiarazione elaborata e firmata a maggio a Tuzla, in Bosnia. “Dopo tre anni tutti noi, umili o potenti, assistiamo al quotidiano ormai banalizzato di una guerra i cui bersagli sono donne, bambini, vecchi, deliberatamente presi di mira da cecchini irraggiungibili o colpiti da obici mortali che sparano dal nulla”, si legge nel documento. “Ci volevano dunque tre anni e, soprattutto, una presa di ostaggi dei caschi blu, fatto senza precedenti nella storia della comunità internazionale, perché leadership politiche e media europei riconoscano che in questa guerra ci sono aggressori ed aggrediti, criminali e vittime”. Tre anni di una “politica inutile di ‘neutralità’, che ci ha privato di ogni credibilità presso i bosniaci e di ogni rispetto da parte degli aggressori”, è la denuncia che rileva l’approdo a “un punto di non-ritorno”.
“Oggi più che mai in passato dobbiamo armarci di dignità e di valori”, ma soprattutto “di quel ‘mai più’ che risuona in tutta Europa dalla fine della seconda guerra mondiale”. Perché troppo spesso ci si dimentica che la pace sul continente europeo non è durata 77 anni – fino all’invasione russa dell’Ucraina – ma appena 46 anni, quando sono scoppiate le guerre nell’ex-Jugoslavia nel 1991. “Oggi più che mai in passato dobbiamo difenderci, in Bosnia, contro coloro che spingono all’epurazione etnica e religiosa come ideale politico e lo impongono perpetrando crimini contro l’umanità”, perché “se la situazione attuale è il risultato delle politiche disordinate, rinunciatarie e contraddittorie” degli (allora) 15 governi europei, “l’Unione Europea in quanto tale è rimasta muta, impotente, assente“. Ecco perché “bisogna che l’Europa testimoni e agisca” in Bosnia.
Agire significava “garantire l’integrità del territorio bosniaco e la sicurezza delle sue frontiere”, ma non solo. “Per recuperare un credito assai largamente consumato, l’Unione Europea deve oggi dar prova di un coraggio e un’immaginazione politica senza precedenti nella sua storia“, scrivevano i firmatari del documento di Tuzla. Uno sforzo che l’Europa “può fare e deve fare”, perché “è condizione della sua rinascita”. È questo quello che veniva chiesto ai leader UE a Cannes: non solo di rinforzare la presenza internazionale in Bosnia e a Sarajevo, non solo di applicare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma soprattuto di “invitare la Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, internazionalmente riconosciuta, ad aderire pienamente ed immediatamente all’Unione Europea“, nello “spirito di solidarietà che deve animare l’Europa”.
“L’Europa, infatti, muore o rinasce a Sarajevo“.
Superare le cicatrici del passato
Dopo aver scritto il suo ultimo appello disperato all’Europa, Langer scelse di togliersi la vita pochi giorni prima del massacro di Srebrenica, quando 8.372 uomini bosniaci furono uccisi dalle forze serbo-bosniache di Ratko Mladić. Una delle cicatrici più dolorose del passato recente dei Balcani, con cui ancora la regione e l’Europa intera si trova a dover fare i conti. “A Srebrenica 25 anni fa si è commesso un atto di genocidio e pulizia etnica che le parole non riescono a descrivere“, diceva l’11 luglio del 2020 in un videomessaggio il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli. I civili bosniaci di etnia musulmana “hanno perso la vita nel modo più brutale e inimmaginabile” e il fatto che questo sia accaduto nel cuore dell’Europa “lo rende ancora più orribile e interroga la coscienza di tutti”. Il biasimo di Sassoli è durissimo: “Non è stato solo il più grave crimine dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma anche il fallimento di tutti di cui dobbiamo vergognarci profondamente“.
In questo fallimento collettivo, ciò che tutti gli europei condividono è il fatto che “il genocidio ha provocato profonde cicatrici fra i sopravvissuti e ha creato ostacoli duraturi alla riconciliazione fra i gruppi politici ed etnici in Bosnia“, ricordava Sassoli. Ma per cercare una via d’uscita, proprio il presidente del Parlamento Europeo si richiamava alle parole di Langer – con un contesto diverso, ma sempre uguali nella sostanza: “Faremo tutto quanto in nostro potere per evitare che questi crimini possano ripetersi nuovamente, per questo siamo impegnati nel processo di allargamento per quella che è una prospettiva europea, non solo per la Bosnia ed Erzegovina, ma per tutti Balcani Occidentali”. L’adesione a un progetto comune di “cooperazione e integrazione” (che già abbiamo analizzato in uno dei precedenti approfondimenti) può permettere di “superare l’odio e le divisioni, vivere non solo in pace ma cooperare insieme”. Questa è una “promessa che dobbiamo fare e che dobbiamo cercare di mantenere viva”, ammoniva Sassoli. Dopo due anni nulla si è mosso, con i 27 Stati membri UE che faticano a tenere in piedi il processo di allargamento nella regione.
Anche dopo la morte del presidente Sassoli, il Parlamento Europeo sta però mantenendo accesa questa speranza (e parte del merito va anche all’intraprendenza e forza della sua erede, Roberta Metsola). Solo un mese fa, nell’emiciclo di Strasburgo, la numero uno dell’Eurocamera ha consegnato il Premio Lux del pubblico per il cinema europeo alla regista del film Quo Vadis, Aida?, Jasmila Žbanić, e alla presidente dell’Associazione Madri di Srebrenica, Munira Subašić. “È un appello alla giustizia per le donne e le madri di Srebrenica, testimoni delle atrocità commesse contro ottomila amati massacrati”, ha sottolineato con forza la presidente Metsola durante la cerimonia di premiazione della pellicola: “Nessun crimine contro l’umanità sarà mai dimenticato in questa casa della democrazia, della libertà e dei valori europei“. Una promessa che incontra l’appello della regista bosniaca, nel suo parallelo tra il conflitto in Bosnia negli anni Novanta e quello in Ucraina in corso: “Non dimenticate i Paesi che non sono nell’UE, abbiamo bisogno del vostro supporto contro i nazionalismi appoggiati da Vladimir Putin, vedete che dopo quasi 30 anni le conseguenze sono ancora molto dolorose”, sono le parole che risuonano nell’Unione Europea del 2022. Ma anche nella Bosnia del 1995.