A 30 anni dalle guerre nell’ex-Jugoslavia si può ancora morire per l’esplosione di mine e resti di bombe a grappolo. I terreni minati nei Balcani potrebbero coprire l’intera area della città di Roma
‘Pazi – Mine / пази – мине‘. Se ti trovi in uno dei Paesi balcanici e leggi queste parole scritte in bianco su un cartello rosso, con il simbolo di un teschio e due tibie incrociate, allora fermati e non fare un solo passo in avanti. Perché sei di fronte a un campo minato. Letteralmente. Un bosco, un terreno incolto, un sentiero in cui sono state piazzate delle mine o resti di bombe a grappolo. Ed è molto più comune di quanto tu possa immaginare. A 30 anni dalle guerre etniche che hanno insanguinato l’ex-Jugoslavia, i civili perdono ancora la vita per responsabilità politica, disattenzione o mancanza di fondi per lo sminamento.
Se vuoi saperne di più sulle guerre nell’ex-Jugoslavia degli anni Novanta, BarBalcani dal gennaio del 2021 ha intrapreso un progetto parallelo, BarBalcani – Podcast (qui tutte le informazioni). Mese dopo mese, BarBalcani – Podcast ci riporta ai tempi della dissoluzione della Jugoslavia, esattamente in quel mese di 30 anni fa che ha segnato le sorti della storia recente dei Balcani e dell’Europa.
Morire per le mine a 30 anni dalla guerra
Sono solo le ultime vittime di una striscia che dura dal 1991, anno in cui è scoppiata la guerra tra la Repubblica di Croazia e la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia in disintegrazione. E non solo in Croazia, ma in quasi tutto il territorio dell’ex-Jugoslavia e lungo i confini dell’Albania. Solo la Slovenia – prima Repubblica socialista jugoslava a separarsi dalla Federazione (in soli 10 giorni) – non ha conosciuto questa carneficina poco mediatica.
Il Paese più colpito è la Bosnia ed Erzegovina, dove oltre 120 mila mine nelle aree rurali rappresentano una minaccia per circa 540 mila cittadini. Quasi un bosniaco su cinque può rischiare la vita ogni giorno, se non fa attenzione a dove mette i piedi. In Kosovo e Serbia il rischio è ancora alto, ma in diminuzione. Il Montenegro è ormai sminato, ma con alcune sacche di pericolo. Albania e Macedonia del Nord hanno invece debellato il problema da diversi anni.
Se si considerano i numeri del dopoguerra, sembra di trovarsi di fronte a un’altra guerra, più silenziosa e quotidiana, in cui muoiono o rimangono menomate persone innocenti – come tutte in tutti i conflitti – ma a fucili abbassati. Dal 1995 in Bosnia e in Croazia (anno della fine delle rispettive guerre) e dal 1999 in Kosovo, Serbia e Montenegro (e di riflesso anche in Albania e Macedonia del Nord), più di 6.240 persone – tra feriti e morti – sono rimaste vittime di mine e resti di bombe a grappolo.
Secondo i dati di Landmine & Cluster Munition Monitor, solo in Bosnia fino al 2020 si sono contate 1.766 vittime e in Croazia 1.434. In 21 anni in Serbia 1.360, quasi mille in Albania – che non era né parte della Jugoslavia né attore belligerante, ma i cui confini per l’esercito serbo erano un obiettivo sensibile per la vicinanza al Kosovo – 590, appunto, in Kosovo e 18 in Montenegro. Tra il 1999 e il 2006 (anno di fine delle operazioni di bonifica) ne sono state contate 82 in Macedonia del Nord. La causa di tutto ciò sono le mine antiuomo e i resti delle bombe a grappolo.
Le mine antiuomo sono ordigni esplosivi posizionati sul terreno o sottoterra e dotati di una carica esplosiva. Vengono azionati dalla pressione (di un veicolo o di un piede), che porta all’esplosione. L’uso, lo stoccaggio, la produzione e la vendita di mine antiuomo sono banditi dal Trattato di Ottawa del 1997, che impone anche la loro distruzione entro 10 anni dall’entrata in vigore della Convenzione nel singolo Stato. Le bombe a grappolo sono invece ordigni sganciati indiscriminatamente sui territori di guerra da mezzi aerei e d’artiglieria, le cui sub-munizioni si disperdono a distanza. I resti inesplosi rimangono potenzialmente mortali per decenni. Sono vietate dalla Convenzione di Oslo del 2008. Tutti i Paesi dei Balcani Occidentali hanno aderito alla Convenzione sulla messa al bando delle mine antiuomo, mentre solo la Serbia non ha firmato la Convenzione sulle bombe a grappolo.
Come tutta la città di Roma minata
Fatta eccezione per la Slovenia, unico Paese balcanico mai minato, solo Macedonia del Nord e Albania hanno portato a compimento le operazioni di sminamento, rispettivamente nel 2006 e nel 2009. Per il Montenegro il problema è relativamente marginale: non si registra la presenza di mine anti-uomo, ma solo di alcune limitate aree con mine navali e 1,72 chilometri quadrati infestati da resti di bombe a grappolo. In Serbia la superficie interessata da ordigni mortali è di 3,24 chilometri quadrati.
La situazione inizia a farsi più problematica per il Kosovo, con ‘solo’ 1,35 chilometri quadrati a rischio mine, ma 14,34 coperti da resti di bombe a grappolo. La vera piaga riguarda invece sempre la Croazia e la Bosnia, dove la guerra si è trascinata più a lungo e con eserciti ed entità politiche più attrezzati per condurre una guerra sporca e combattuta sulla pelle dei civili. La Bosnia ed Erzegovina è minata su un’area di quasi mille chilometri quadrati, 968,99 per l’esattezza. La Croazia su un’area di 279,55 chilometri quadrati. Complessivamente, la superficie non calpestabile nei Balcani Occidentali – se non si vuole rischiare di rimanere vittime di mine o altri ordigni inesplosi – si estende per 1.269,19 chilometri quadrati. Un termine di paragone? Come se tutta l’area metropolitana della città di Romafosse ricoperta da mine.
Per riuscire a sminare completamente una ‘Roma balcanica potenzialmente esplosiva’ i fondi del bilancio pluriennale dell’Unione Europea possono essere decisivi. Lo dimostra la Croazia – unico Paese dei Balcani Occidentali che è membro Ue (insieme alla Slovenia, ma non interessata da questo problema) – che prevede di coprire al 60% con fondi da Bruxelles le operazioni di sminamento, che costeranno 1,2 miliardi di euro entro il 2026. L’obiettivo è bonificare almeno un terzo delle aree forestali – che rappresentano la quasi totalità di quelle minate – con i fondi della politica di coesione europea, per mettere in totale sicurezza le aree attigue ai parchi nazionali.
Un esempio virtuoso è il progetto Fearless Velebit, condotto nell’ambito del Programma operativo Competitività e Coesione 2014-2020, per la bonifica di due aree nell’entroterra di Senj e Zara, tra l’Adriatico e il confine con la Bosnia. La fine del progetto è prevista per il giugno 2023, ma le operazioni di sminamento sono già state concluse nel dicembre 2020. Nel Parco nazionale di Paklenica e nel Parco naturale del Velebit sono stati messi in sicurezza 1.645 ettari ed eliminate 2.177 mine e materiale letale inesploso.
Ma anche altri progetti finanziati dall’Unione Europea possono essere decisivi per la vita di tutti i giorni di cittadini e persone che frequentano i Balcani Occidentali, in attesa che tutta la regione sia finalmente libera da mine. Come l’applicazione Bosnia and Herzegovina Mine Suspected Areas (qui il link per scaricarla), sviluppata attraverso due progetti finanziati dall’Instrument contributing to Stability and Peace (IcSP) dell’Ue, per mappare e rendere facilmente accessibile la conoscenza delle aree minate da evitare in tutto il Paese. Per cercare di mettere fine alle conseguenze di guerre tecnicamente già concluse. A quasi 30 anni di distanza.